Le riforme incompiute: il caso delle ZES

Sulle zone economiche speciali (ZES) nelle regioni meridionali del nostro Paese, quando se ne parla, si continuano spesso ad utilizzare luoghi comuni che non aiutano ad indirizzare verso le decisioni davvero necessarie per raggiungere gli obiettivi di attrazione degli investimenti e di sviluppo produttivo. Si dice che siano passati anni dalla istituzione delle ZES senza che nulla sia successo. Spesso confondiamo l’approvazione di una legge con l’esistenza delle condizioni perché sia effettivamente applicabile. Occorrono invece diversi passaggi normativi per poter avviare il percorso di attuazione. Le modalità di formazione della volontà legislativa rimandano ad atti successivi di normazione dai quali dipendono l’effettività dei provvedimenti. In questo caso si parte con il decreto Mezzogiorno (giugno 2017), poi convertito in legge dal Parlamento. Seguono due dpcm che definiscono le condizioni in base alle quali si possono presentare al Governo da parte delle Regioni la perimetrazione
territoriale delle ZES ed il connesso piano strategico.
Poi interviene il dpcm per la costituzione della ZES. Successivamente devono essere nominati i componenti del Comitato di Indirizzo. Infine, viene deciso con la Leggedi Stabilità 2020 che per ogni ZES deve essere nominato un Commissario Straordinario (se ne è nominato sinora uno solo, in Calabria).
Sin qui, siamo solo alla architettura amministrativa del funzionamento, senza che alcun effettivo meccanismo sia stato ancora messo concretamente in campo affinchè le imprese passano prendere le proprie decisioni. Veniamo ora a quello che davvero serve per attrarre aziende ed investimenti.
I due pilastri su cui si fondano le ZES nelle regioni meridionali sono il credito di imposta e la semplificazione. Non è molto, se compariamo questa strumentazione incentivante con le oltre 5.000 ZES sparse in giro per il mondo: nei casi di maggior successo sono disponibili poderose riduzioni di carico fiscale, quelle che davvero sono in grado di attirare le imprese per l’immediato vantaggio che si determina per la
competitività sui costi. Comunque, in Italia possiamo contare solo su credito di imposta per gli investimenti e semplificazioni, oltre che su una serie ulteriore di incentivi che possono essere messi a disposizione dalle Regioni.
Per il credito di imposta si è lungamente dibattuto, a livello di Governo, se tale incentivo dovesse essere subordinato ad una autorizzazione da parte del Comitato di Indirizzo di ciascuna ZES oppure se dovesse essere concesso su base automatica, con una autodichiarazione da parte della impresa.
Al termine di questa discussione si è scelta la seconda strada: è stato comunque un bene perché la storia delle politiche industriali in Italia testimonia che solo gli incentivi automatici hanno determinato un impatto. Tutto ciò che invece viene subordinato alla discrezionalità amministrativa è stato un disastro, per le ulteriori complicazioni che
sono state introdotte e per le lentezze che sono state generate.
Il credito di imposta per le ZES è diventato operativo soltanto a partire dal 25 settembre 2019, pochi mesi prima che intervenisse la nuova gelata economica determinata, ad inizio marzo 2020, dal lock down pandemico.
Elementi positivi che sono intervenuti successivamente – e di recente – consistono da un lato nel fatto che si è allargata la possibilità di investimenti anche nel settore della logistica, prima escluso (codice Ateco 52), e dall’altro perché si cominciano ad aprire spiragli per la costituzione delle zone doganali intercluse, particolarmente interessanti per chi può lavorare su materie prima e semilavorati importati in regime di sospensione di imposta, per poi esportare il prodotto finito sui mercati internazionali.
La semplificazione, poi, sinora ha scalfito solo la superficie del problema e non si è tradotta in intervento adeguati a costituire un effettivo attrattore per gli investimenti. Quando si è messo mano alle norme, con la legge n. 12 del 2019, si sono ridotti i tempi di alcuni procedimenti, senza però inserire la clausola conclusiva del silenzio assenso. Vale a dire che, con qualunque richiesta di chiarimento in corso di procedura, i tempi si dilatano e diventano nuovamente incontrollabili. In linea generale, invece di tagliare seccamente una serie molteplice di passaggi amministrativi e burocratici che scoraggiano l’insediamento di una impresa (se ne contano sino a trentaquattro), si è aggiunto un altro strato alla cipolla esistente. Tale
constatazione è particolarmente chiara se affrontiamo il tema della costituzione dello sportello unico ZES. Intanto solo a contare quanti sono gli sportelli unici in Italia ci si rende conto che qualcosa non torna: sportello doganale unico, sportello amministrativo unico, sportello unico delle attività produttive…Già lessicalmente c’è qualcosa che non torna.
Lo sportello unico della ZES, l’ultimo nato in famiglia, si configura in realtà non come l’informatizzazione di un processo di semplificazione, ma come la giustapposizione informatica di un ulteriore strato burocratico, peraltro senza alcun potere, rispetto alla struttura esistente degli altri sportelli amministrativi, definiti peraltro egualmente unici.
Uno sportello unico avrebbe senso se si introducesse una autorizzazione unica, come peraltro è stato richiesto dalle Regioni meridionali nella Conferenza Stato Regioni. Questo è il senso in base al quale è stata elaborata la norma in base alla quale il percorso di autorizzazione avviene mediante Conferenza di Servizi unificata,
convocata dal Commissario Straordinario che svolge anche il ruolo di rappresentanza delle amministrazioni statali. Se invece lo sportello unico diventa l’ennesimo passaggio amministrativo, che peraltro
viene messo in connessione con SUAP comunali che spesso non si avvalgono dello stesso strumento informatico, si compie una operazione che non consente alcun miglioramento sui tempi effettivi con i quali si possono ottenere le autorizzazioni necessarie per l’insediamento di nuove aziende. Su questi temi dovrebbe aprirsi una discussione per completare una riforma, che, come spesso accade in Italia, è rimasta a metà del guado.

di Pietro Spirito